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Mani in pasta e mente aperta: con la cooking therapy

Avere le mani in pasta. Una frase che ha mille possibili significati, non tutti positivi nel linguaggio comune italiano, ma che tornando alle origini, rimanda invece a qualcosa di altamente positivo. L’innegabile potere terapeutico dell’atto del cucinare. La pace che istintivamente ci coglie quando affondiamo le dita in un panetto di impasto, la gioia nel veder crescere effettivamente il nostro dolce all’interno del forno, lo sfogo naturale e sano di energia che dà il mescolare energicamente una crema. Tutto questo è costantemente nella vita di tutti e tutto questo è alla base della cooking therapy, una disciplina che porta a braccetto psicologia e cucina, sostituendo al lettino dello psicoanalista il bancone di legno da sporcare di farina, uova, lievito. E magari anche cioccolato. Un binomio accettato dai terapeuti come metodologia pratica già da molto tempo all’interno di un’evoluzione naturale del settore, diventato sempre più, negli ultimi decenni, attento “alla tutela della salute e alle condizioni che favoriscono il benessere” della persona come spiega Barbara Volpi – psicologa clinica e psicoterapeuta, PhD in Psicologia dinamica e clinica alla Sapienza Università di Roma – nel suo Che cos’è la cooking therapy? (Carocci Editore, pp. 160).

La cucina come laboratorio terapeutico naturale arriva nel “1975 quando Selma Fraiberg lo inserisce nella psicoterapia genitore-bambino”, per poi restare ancorato alle radici familiari di ognuno di noi, fino a dilagare, nell’ultimo decennio, in una serie articolata e ben differenziata di terapie con focus ben precisi, legati tanto alla fascia d’età della persona quanto alle patologie intrinseche. In questi momenti, spiega la Volpi, l’atto pratico “assume valenza terapeutica” e permette di dare “lustro di scientificità al focolare domestico, che non è più solo il luogo del dovere”, ma un “luogo di benessere, di ascolto e riflessione, dove nel trasformare il cibo” viene supportata e trasformata la persona.

Nella Cooking Therapy la catarsi avviene non tanto nel contatto con un altro essere vivente, quanto con sé stessi e con tutte le implicazioni emotive che ha il cucinare. Questa via “per una moderna mindfulness (pienezza mentale, ndr)” come viene definita da Marsha Linehan, pioniera della terapia dialettico-comportamentale, va infatti ben oltre il bisogno mentale del doversi cibare, diventando “fonte di significato e motivazione, di scelta e controllo, di equilibrio e soddisfazione”, oltre che un metodo ottimo per imparare a organizzare il proprio tempo, e che proprio attraverso l’obbligatorietà dell’organizzazione e della pratica, funziona da cuscinetto con il mondo esterno, rendendo la creazione di un piatto un atto di soddisfazione personale.

Un passaggio, quello dalla pratica quotidiana all’atto di cura di sé stessi, che non è difficile, ma non è automatico. Barbara Volpi cita il titolo del noto libro di Morishita Noriko, “Ogni giorno è un buon giorno”, per ricordare il valore di trasformare un gesto consueto e ordinario e anche se “all’inizio non capisci minimamente cosa stai facendo, da un certo giorno, all’improvviso la tua visuale si amplia”. In primis “occorre seguire dei passi” ben precisi “per rendere la cucina un vero e proprio laboratorio. Si parte dall’allestimento dello spazio, dalla mise en place della postazione”, dove già il riordinare ci mette in una condizione di concentrazione positiva, che diventa poi focalizzazione “sulla ricetta, sull’atto culinario”, perché solo attraverso una decisa presenza rispetto a quello che si fa, può essere valorizzato e diventare occasione di sviluppo.

Altro passaggio fondamentale è la scelta del menu che, a seconda della persona che lo pensa, terapeuta o autodidatta, diventa uno strumento. Ognuno “in base alle proprie esigenze può orientarsi sulla scelta di ricette specifiche che possono sensibilizzare all’attesa, alla capacità di prestare attenzione, a gestire vuoti e assenze, a imparare a compiere scelte consapevoli” e molto altro ancora. Una cottura lenta potrà essere una buona cura per l’impazienza, ricette particolarmente complesse richiederanno l’estromissione dalla propria mente di rabbia e preoccupazioni e favoriranno l’allenamento della memoria anche più di un cruciverba. Le brasature saranno invece stimolo per l’attenzione al dettaglio e alla cura dei particolari.  

Fonte: repubblica.it